Approfondimento "La ragazza senza nome"


“La relazione di aiuto: uno spazio dove riconoscersi e ritrovarsi”

Se da una parte è importante dare una degna sepoltura ai defunti, così come accade nel film dei fratelli Dardenne dove Jenny la protagonista del film, nel tentativo di curare i propri sensi di colpa, cerca di restituire un’identità alla persona che una notte suona invano il campanello del suo ambulatorio, è altrettanto importante che le persone possano arrivare alla morte avendo fatto esperienza di una vita dignitosa.
In una società che ci insegna che essere significa “essere qualcosa, diventare qualcuno” e in questo nascondere le proprie debolezze, e non far emergere i difetti che potrebbero impedire alla persona di avere stima di sé e farsi stimare dall’altro, è sempre più facile smarrirsi e perdere la propria identità.
Tutti ricerchiamo e vorremmo riconoscerci in un’identità forte e invincibile, tuttavia nella condizione umana è insita la sua fragilità e vulnerabilità. Sì, perché tutti abbiamo dentro di noi una nostra fragilità, un punto di rottura dal quale desideriamo allontanarci, perché temiamo di essere sopraffatti dalle nostre debolezze.
Nel corso della propria vita può capitare di smarrirsi anche profondamente, a causa di eventi traumatici o particolarmente stressanti, esperienze di disagio ed emarginazione sociale o altro ancora, che espongono le  nostre fragilità ad una maggiore vulnerabilità personale.
“Fragilità” ha la stessa radice del verbo frangere che significa rompere.
Lo psichiatra Vittorino Andreoli descrive la fragilità umana come “la fragilità di un vetro pregiato di Murano o di un cristallo di Boemia: bello, elegante, ma basta poco perché si frantumi e si trasformi in frammenti inservibili. Conoscendone la natura, si deve stare attenti a come lo si usa, a come lo si conserva: occorre tenerlo lontano da luoghi in cui si compiono azioni d'impeto, perché altrimenti quel vetro pregiato si fa nulla, solo ricordo.“
L’esperienza di perdita o smarrimento della propria identità, che rappresenta una delle più intense manifestazioni della fragilità umana, è vissuta come angoscia di frammentazione e può prendere la forma del sintomo nella sofferenza psichica; va tuttavia compreso che il sintomo diventa l’unico modo per la persona di esistere e ricomporsi.
Può accadere che per molto tempo il sintomo sia rassicurante per la persona e rappresenti la dimensione della sua esistenza, ecco che allora per restituirle un’identità è necessario passare per l’accettazione del sintomo come unica modalità di funzionamento possibile in quel momento, dare uno spazio di accoglienza e di ascolto a ciò che esso significa e capire ciò da cui la protegge.
In percorsi terapeutici, spesso difficili e faticosi, dove la riabilitazione della persona da un punto di vista psichico, sociale, relazionale ed occupazionale è l’obiettivo principale, lo strumento cardine del cambiamento è la relazione di aiuto.
Per aiutare l’altro a ritrovare se stesso e restituirgli un’identità è necessario accogliere, riconoscere e sentire la forza della propria e altrui fragilità, non averne paura, perché essa è la percezione e la consapevolezza del proprio limite, e chi fatica a riconoscerla e ad accettarla si espone ad un profondo senso di insoddisfazione personale.
E’ solo quando nella relazione di aiuto si costituisce un rapporto di fiducia reciproca che la persona sofferente fa esperienza di una relazione umana come spazio di cura nel quale potere veicolare il proprio cambiamento. La fiducia che nasce e cresce nell’incontro con l’altro, è infatti la base primaria di ogni percorso di cambiamento.
E’ dentro un rapporto di fiducia che l’altro sente la possibilità di toccare e accogliere le proprie fragilità, lasciare piano piano il sintomo verso il quale aver maturato un atteggiamento critico e consapevole, ma anche sperimentarsi nel trovare dentro di sé nuove risorse e risposte per tornare ad avere stima in se stesso e riappropriarsi pienamente del valore della propria vita, restituendole la dignità necessaria; e allora anche l’esistenza più difficile e problematica può trasformarsi in una vita degna di essere vissuta e la persona può finalmente trovare una nuova identità in cui riconoscersi.
Ecco che quando qualcuno bussa alla nostra porta chiedendoci aiuto, sia a livello professionale che personale, quella persona sta riponendo, spesso con grande fatica ma con forte generosità, fiducia in noi, e ci pone in una posizione di responsabilità dalla quale non dobbiamo sottrarci per il timore di farci coinvolgere e o contagiare dalle sue fragilità, quelle stesse fragilità  che noi abbiamo saputo tenere e gestire; proprio per questo motivo nella relazione di aiuto si costituisce uno spazio di rispecchiamento in cui l’altro può riconoscersi e imparare a ritrovare se stesso.
Monica Stizzoli







Nessun commento:

Posta un commento